Più dolce sarebbe la morte se il mio sguardo avesse come ultimo orizzonte il tuo volto, scrisse Shakespeare, in un elogio all’amore. E cosa c’è in fondo di più importante dell’amore, nell’accompagnare una persona negli ultimi giorni della sua vita?
Tuttavia, l’amore non basta.
Essere caregiver di una persona che affronta una malattia non guaribile richiede competenza e dedizione, conoscenza e umanità, quel connubio socio-sanitario che sfocia nell’umanizzazione delle cure. Parliamo, infatti, di cure che vanno oltre agli aspetti prettamente sanitari. Nelle cure palliative l’attenzione è rivolta all’intero nucleo familiare: ci si prende cura del malato in una dimensione olistica. Ai bisogni sanitari, si affiancano quelli psicologici, sociali e spirituali, ai quali viene data risposta da un’équipe multidisciplinare, come ci spiega Claudia Cugno, infermiera che da 20 anni si occupa di cure palliative e coordinatore del gruppo di infermieri domiciliari della Fondazione Faro.
Quali sono le peculiarità dell’assistenza al malato terminale?
Da tempo noi operatori di cure palliative (CP) preferiamo al vocabolo “terminale” che, contrariamente a quel che si possa pensare è soggetto a interpretazioni, parlare di malato con patologia non guaribile.
L’assistenza consiste in un approccio che fin dalla nascita delle cure palliative unisce arte medica e umanizzazione delle cure.
Lo sguardo è rivolto ai bisogni fisici attraverso il controllo dei sintomi derivanti dalla patologia e a quelli psicologici, sociali e spirituali della persona malata, offrendo sostegno ai familiari coinvolti e accompagnando entrambi fino al termine della malattia e spesso anche “oltre” durante il periodo di lutto.
Quel che orienta tutto questo è l’obiettivo di migliorare la qualità della vita del malato, sostenendola, per quel che è possibile, fino agli ultimi giorni. Per questo motivo il luogo dove vengono offerte maggiormente le CP è la casa del paziente, proprio per permettergli di essere curato nel proprio ambiente senza fare avanti e indietro con fatica dagli ospedali.
L’équipe curante è multidisciplinare ed è composta da diverse figure quali infermieri, medici, psicologi, fisioterapisti, OSS, assistenti sociali, spirituali, che collaborano con il medico di medicina generale e i servizi infermieristici territoriali.
Qual è la parte più difficile di questo lavoro?
Sicuramente il contatto prolungato con la sofferenza espone qualunque essere umano al rischio di eccessivo coinvolgimento emotivo e quando si sceglie questo lavoro si deve essere capaci di riuscire “a stare” in contesti a volte anche strazianti. Inoltre, la relazione con i familiari, forse più che con il paziente, può essere complessa a causa del grado di “accettazione” della malattia del proprio caro; in alcune situazioni il caregiver (così chiamiamo chi assiste il paziente a casa) dirotta i propri sentimenti di rabbia, ostinazione verso cure inutili, ecc.., verso gli operatori che in qualche modo sono quelli che testimoniano che la situazione è seria. Di contro, il tipo di lavoro è ricco di soddisfazioni perché nella stragrande maggioranza dei casi la gratitudine di chi si incontra è veramente palpabile.
Le emozioni in gioco in questo caso devono essere davvero forti. Come ci si protegge da questo? Hai qualche consiglio da darci per evitare il burn out?
Difficile dare ricette perché tutto è imprescindibile dalla storia personale di un operatore che incontra la persona in difficoltà. Potrei dire che la cura di sé, della propria vita, di spazi rigeneranti in cui si pensa a qualcosa di più leggero, è importante. Aggiungerei che vi sono altri due aspetti da attenzionare: non strafare in termini di “quantità assistenziale” e ascoltarsi spesso per riuscire a capire quando c’è bisogno di staccare o di chiedere aiuto in qualche modo. Chi ci occupa di questi pazienti in modo continuativo ha spesso a disposizione dei professionisti di sostegno psicologico.
Parliamo di caregiver familiari: dall’iper protezione alla negazione, come forme di difesa. Quali sono i comportamenti più frequenti? Come possiamo aiutarli in questo percorso?
Essere il caregiver di una persona che muore a casa comporta un bel po’ di fatica da tanti punti di vista. A questo aggiungo che il periodo storico può complicare ulteriormente le cose e non mi riferisco solo all’emergenza Covid, ma anche all’aumento delle difficoltà sociali degli ultimi anni. L’intervento di un’équipe di cure palliative può offrire molti sostegni per riuscire ad andare avanti giorno per giorno favorendo il percorso di consapevolezza di tutti e se possibile anche di accettazione della situazione. Alcune figure dell’équipe possono avere un ruolo chiave nelle situazioni di particolare difficoltà, anche se spesso questo non è sufficiente quando il caregiver è unico e solo; in questo caso si può prendere in considerazione un ricovero in Hospice, luogo dove vengono prestate le cure palliative a chi non può essere assistito a casa.
I meccanismi più frequenti sono ancora quelli della negazione e dell’omertà rispetto all’informazione al malato. Spesso dietro a questi comportamenti c’è la fragilità di tutti e la difficoltà a condividere i vissuti come se fosse più facile soffrire ognuno nel proprio angolo, ma noi operatori sappiamo che così non è, perché queste logiche con il tempo aumentano le tensioni e di sicuro non favoriscono i preziosi momenti di saluto tra morente e familiare, che possono e dovrebbero avvenire.